Questa nuova personale di Ciro Palumbo, nata intorno alla
grande scultura creata per la città , segna un’ulteriore svolta nella carriera
dell’artista. Se le suggestioni del mito, del viaggio, dell’eroe e del sogno
restano come filo conduttore, la pittura si trasforma facendosi più emozionale
e istintiva. La nuova attenzione al colore l’avevamo già colta nei lavori più
recenti come un bisogno di concentrarsi sui simbolismi delle cromie andando ben
al di là del dato naturale. Ma qui, ora, è come se Palumbo avesse sfondato una
barriera invisibile e avesse dato libero sfogo al carattere più selvaggio del
colore. Perché se è giallo deve essere oro colante, se è rosso allora è sangue,
passione, fuoco; il blu si accende di luci smaltate, l’arancio arde. Ma
soprattutto ecco i bianchi calcinati, ruvidi, scabri. E i neri fondi e
bituminosi nei quali si ha l’impressione di sprofondare.
Nei lavori più piccoli e
in quelli di medie dimensioni l’azione si concentra in un punto, massimo due,
come a richiamare l’occhio, mentre lo sfondo dilaga nella gioia del colore.
Colore che non è mai piana superficie, ma che si fa magma, turbine, vortice di
materia pittorica nel quale è possibile cogliere il segno della pennellata.
Quello che fino a qualche tempo fa si poteva interpretare come un omaggio alla
pittura gestuale, una tentazione informale, si fa qui precisa dichiarazione
d’intenti verso una pittura d’azione che scompagina le carte, che travolge lo
spettatore e qualche volte lo intrappola in deliziosi trabocchetti percettivi.
Come quando un veliero volante dipinto ad altissima definizione si libra sopra
un golfo dove le rocce vanno facendosi sempre più vaghe man mano che si procede
verso la zona in primo piano e dove il mare è selva di gocciolature materiche,
dense, colanti, del colore del fango. Oppure come quando l’isola rocciosa
(oramai simbolo dell’artista) non è più dorata pietra calcarea, ma marmo
candido, glaciale, e – illuminata da una luna fuori campo – si
staglia su un cielo così nero e fondo da farci smarrire nello spazio, solcato
da graffi che potrebbero essere scie di astri. O, ancora, come quando cielo e
mare sono un unico agglomerato di materia chiara e gessosa, la cui surreale
solidità è confermata dall’ombra caparbia del faro e dalle barche affondate,
conficcate come lapidi.
Nei dipinti più grandi
tornano le narrazioni care a Ciro Palumbo. Storie di eroi e di antieroi, angeli
caduti vittime di un destino cieco o viandanti disperati.
Nasce da qui, da uno dei
grandi dipinti in mostra, il desiderio di rintracciare i fili di una storia.
Solo una di quelle possibili nell’universo onirico di Ciro Palumbo, vibrante e
incerto come un castello di specchi.
Non avevo scelta. Era
l’unica via d’uscita, l’unica maniera in cui avrei potuto salvarmi. Non c’è
colpa quando in gioco c’è la sopravvivenza: siamo solo animali guidati
dall’istinto.
O lui o io.
Non avevo scelta.
Anche se lo so che per
quanto io possa fuggire, andare lontano, far perdere le mie tracce oltre
l’orizzonte, continuerò per sempre a sentire la sua voce. Le sue urla. Le sue
suppliche. E forse anche l’odore del fumo. E il crepitio del fuoco che
cancellerà tutto, che purificherà tutto. Che mi riporterà all’inizio.
Era indifeso, disarmato.
Ma il suo stesso vivere e respirare e parlare mi avrebbe succhiato via il
sangue e l’anima. Non avevo scelta.
Stava seduto. Non se
l’aspettava. Aveva alzato la testa e aveva anche accennato un sorriso.
“Sei tu…â€
Poi aveva colto la mia
espressione. Aveva capito che io ora sapevo.
Era diventato pallido di
colpo. Improvvisamente si era mostrato per quello che era: un vecchio seduto su
una sedia di legno in una casa spoglia. Ho guardato le reti appese, ho
scacciato un ricordo che affiorava come lacrime.
E l’ho colpito.
Una volta, due… Non lo
so più.
Le urla.
E la domanda: “Perché?â€
Ma lui lo sapeva bene,
il perché. C’era quel perché e insieme a quello tutti gli altri perché. Le
promesse mai mantenute, le fiabe che si erano crudelmente mutate in bugie,
l’assenza, il tradimento.
L’aveva fatto una volta,
tanti anni prima. E ora l’aveva fatto di nuovo: me l’aveva portata via per
sempre.
Quando lei me lo aveva
detto era stato come rivivere una storia già vissuta, ma con una trama diversa.
Si era seduta di fronte
a me seria, ricompresa nel suo ruolo. Diceva che non voleva che io soffrissi.
Come se questo fosse mai possibile.
“Chi è…?â€, le avevo
chiesto.
Un lampo di panico le
aveva attraversato lo sguardo.
Non voleva dirmelo. E
poi aveva cominciato a spiegare l’inspiegabile, a dire che lui era me ma era
anche qualcosa di diverso da me che a lei era molto più affine, che piano piano
aveva cominciato a capire che loro due avevano così tanto in comune, e che lui
le dava tutta la tenerezza che lei aveva sempre cercato, che era quel padre che
lei non aveva mai avuto.
“Io non ho mai avuto un
padre, capisci…?â€, mi diceva.
Nemmeno io.
Nemmeno io ho avuto un
padre.
E già vedevo che le sue
lacrime si trasformavano in uno scintillio: era libera, ora. Anticipava col
pensiero il momento in cui l’avrebbe riabbracciato. In cui sarebbe stata sua
alla luce del sole, senza quello stupido fardello che ero io.
Sentivo freddo allo
stomaco, al cuore.
Lei si era già alzata.
Avevo guardato la sua
figura leggera, il suo ventre ancora piatto.
“E il nostro bambino…?â€,
avevo chiesto. Come un idiota.
Lei aveva scosso la
testa. Aveva protetto il grembo con le mani. E si era voltata di scatto,
dandomi le spalle.
Di questo, almeno, si
vergognava.
Nemmeno quello, era mio.
L’avevo lasciata andare
e poi ero andato da lui.
Apro la mano e guardo
quest’oggetto che stringo da ore. Che ho continuato a stringere per tutta la
traversata, quando la barca veniva schiaffeggiata dalle onde e io pensavo che
forse il mare – quel mare che avevo amato così tanto da bambino –
mi avrebbe ucciso. E lo speravo, in fondo.
Mi è rimasto un solco
sul palmo. Ancora un po’ e si sarebbe aperta una ferita, avrebbe cominciato a
uscire il sangue.
E’ uno di quei
medaglioni che si aprono a scatto e che nascondono un piccolo portafotografie.
Ovale, con la superficie decorata a motivi floreali, attaccato a una catena
leggera ma dalla maglia complicata. Deve risalire all’inizio del Novecento.
Non ho bisogno di
aprirlo per sentire un’onda di dolore, di tristezza e di ricordi che mi assale
fino a farmi piegare le ginocchia. Non ho memoria di un solo giorno in cui lei
non lo indossasse.
Lei.
Lei che assomigliava
così tanto a quell’altra lei venuta molti anni dopo e forse per questo da me
così amata.
Il medaglione ciondolava
davanti ai miei occhi di bambino quando lei mi accompagnava all’asilo e si
chinava davanti a me, seduto su una di quelle panchette di legno, per dirmi che
non avrei dovuto piangere, e che avrei dovuto mangiare tutto, e che presto
– molto prima di quanto mi sarei immaginato – lei sarebbe tornata a
prendermi. Mi sembra ancora di poter vedere la mia manina aggrappata a quella
catena leggera e lei che la stacca dolcemente, dito dopo dito, spiegandomi che
non devo tirare perché è fragile, delicata: potrebbe strapparsi.
“Apparteneva alla mia
nonna, sai? E poi alla mia mamma. E adesso è mia, e dentro ci sei tuâ€.
E ogni volta se la
sfilava dal collo con un gesto lieve, la appoggiava alla mano, l’apriva e mi
mostrava quella fotografia. Così piccola che a stento vi si riconoscevano i volti.
Faccio scattare
l’apertura e la foto è sempre lì. Lui indossa una giacca chiara aperta su una
camicia bianca: bello come un ragazzino, con i capelli spettinati e lo sguardo
ridente. Io gli arrivo appena alla cintura, ho il sole in faccia e storco il viso
in una smorfia buffa. Dietro di noi si intuisce un pezzo del campanile, così
tozzo e squadrato da sembrare un giocattolo, e qualche scorcio della facciata
colorata di una casa.
In questa notte
terribile in cui ho commesso l’irreparabile mi accorgo che il mio cuore può
ancora accelerare. Mi pare di poter sentire l’odore di quella piazza, la
domenica, quando c’erano le bancarelle e la signora bionda con il grembiule
chiaro faceva le frittelle e l’aria si riempiva di promesse. E lui mi metteva
una mano sulla spalla e mi diceva:
“Ne prendiamo un’altra?â€
E poi allacciava lei
alla vita, si chinava a baciarla.
Era una felicità così
assoluta e così limpida che abbagliava lo sguardo. Non si poteva guardarla
direttamente, ma solo intuirla, respirarla, contemplarla senza sfiorarne la
superficie, perché nella sua purezza stava anche tutta la sua fragilità .
Aveva creduto di averlo
perso, una volta. Eravamo a Berlino e lei sembrava impazzita. Lo aveva cercato
per tutta la stanza d’albergo, quella mattina, e poi era tornata in sala da
pranzo, pensando che magari le fosse caduto la sera prima. Piangeva come una
bambina e io e lui non sapevamo come consolarla.
“Era della nonna,
capisci? C’è dentro la storia di tre generazioni, ci sono le mie radici…â€
Ero scoppiato a piangere
anch’io e avevo cominciato a strisciare sul pavimento per cercarlo, e intanto
pregavo di trovarlo e promettevo che se l’avessi trovato avrei fatto tutto
quello che i miei genitori volevano, sarei diventato il bambino più bravo del
mondo.
E l’avevo trovato: si
era infilato tra il materasso e il bordo del letto, probabilmente mentre lei
dormiva.
Lei aveva spalancato su
di me i suoi occhi di quel blu profondo che non avrei mai dimenticato e aveva
cominciato a baciare il medaglione. Rideva e piangeva. E poi mi aveva stretto a
sé e mi aveva baciato su tutta la faccia, mentre io facevo finta che mi desse
fastidio e invece ero così felice e orgoglioso.
Era stata la stessa
mattina in cui eravamo andati al museo. Non amavo i musei, allora, ma lei era
così radiosa che quando mi aveva preso per mano e mi aveva sussurrato di
seguirla, io avrei fatto qualunque cosa perché quella luce nei suoi occhi non
si spegnesse mai.
Mi aveva portato davanti
a un quadro con un’isola e mi aveva detto:
“Guarda… Guarda che
meraviglia…â€
Teneva il medaglione tra
le mani, lo stringeva come un amuleto, lo accarezzava. E intanto parlava.
“Questa è l’Isola dei mortiâ€,
diceva. “Ma non è una cosa triste, sai? E’ il passaggio, la trasformazione.
Vedi quella figura bianca? E’ l’anima della donna morta che sta nella bara. E’
vigile, pronta al trapasso…â€
“Come fai a sapere che è
una donna, mamma…?â€, avevo chiesto.
Quel dipinto mi metteva
paura, mi faceva rabbrividire. Ma non osavo dirglielo.
Lei aveva sbattuto le
palpebre, come svegliandosi da un sogno. Si era girata un istante verso di me.
“Si vede: la veste, la
linea dei fianchi… Quando mia mamma, la nonna, è morta io ero molto giovane.
Studiavo storia dell’arte, allora, e ricordo che quando avevo visto per la
prima volta questo quadro avevo provato una sorta di consolazione: avevo
cominciato a immaginare mia madre così, con il suo vestito più bello, un
tailleur chiaro che le fasciava il corpo, ritta su una barca davanti alla
propria bara. Serena e consapevole. Piano piano nella mia mente si era
cancellato il ricordo del suo funerale, mio padre che piangeva, la pioggia che
allagava il cimitero… Il suo funerale era diventato quello: una traversata
sull’acqua limpida e un bosco che l’aspettavaâ€.
Era rimasta per qualche
minuto in silenzio a fissare il quadro con gli occhi febbricitanti.
Avrei voluto domandarle
se avesse pianto, come fosse la nonna, a quanti anni fosse morta e come. Ma non
riuscivo a parlare, ipnotizzato da quella macchia di alberi che si perdeva in
un nido scuro di ombre minacciose che immaginavo immerso in un silenzio
soffocante.
“Guarda, tesoro…â€, aveva
ricominciato lei. “Guarda quel cielo che sta mutando, col sereno che si fa
strada in mezzo alle nuvole. E guarda il mare dipinto come uno specchio, lucido
e immobile, rotto solo dalla lieve scia della barca. Non ti sembra di riuscire
a sentire il fruscio del remo che spezza la superficie? E ora guarda le punte
dei cipressi: sono piegate di lato, come se avvertissero un vento ultraterreno
che non tocca la superficie del mare, come se cantassero facendo oscillare le
chiome… Vedi, Böcklin, l’autore del quadro, aveva perso otto figlie… era stato
costretto a superare la morte, a farsene una ragione. Questa limpidezza è la
sua ragione, secondo me…â€
Doveva aver avvertito il
mio disagio.
“Tutto bene, amore?â€
“Mi fa paura…â€, avevo
risposto.
Lei mi aveva stretto
contro di sé. Avevo sentito nelle narici il suo profumo.
“Ma no, dai… Andiamo,
oraâ€.
Mi ero voltato un’ultima
volta a guardare il quadro e avevo avuto la netta sensazione di vedere
oscillare le punte dei cipressi.
Era lei che mi
raccontava le storie della buonanotte, la sera.
Poi, a un certo punto,
aveva cominciato a farlo lui. Ma non gli piaceva leggere, come a lei, che si
sedeva e posava sulle ginocchia uno dei miei libri di fiabe: lui preferiva
inventare. O guardare le stelle.
Nelle notti limpide mi
faceva uscire dal letto. Se faceva freddo mi infagottava tutto dentro una
coperta come se indossassi un mantello e poi spalancava la finestra e mi
invitava a guardare in su.
“Quello è il Grande
Carroâ€, diceva, indicandomi le sette stelle che pulsavano sopra di noi. E io a
fatica isolavo nel mare nero del cielo quei piccoli punti, sforzando gli occhi,
e poi esultavo quando nella mia testa riuscivo a ricostruire la forma della
costellazione. “E quello lì, quello che sembra un aquilone, è Orioneâ€.
Piano piano la stanza
diventava fredda e allora, a malincuore, chiudevamo la finestra e io andavo a
letto con ancora la sensazione di galleggiare tra quei puntini luminosi.
Una sera era arrivato a
casa con un regalo bellissimo: delle stelline fosforescenti da attaccare al
soffitto per ricostruire le costellazioni. Ricordo che avevamo aperto un libro
per guardare le forme e le disposizioni degli astri e poi, armati di scala e di
metro, avevamo ricostruito il firmamento sopra la mia testa. Così di notte,
prima di dormire, potevo continuare a guardare le stelle da sotto le coperte.
Se non guardavamo il
cielo, lui mi raccontava delle storie. Erano storie che inventava o che
modificava ispirandosi ai romanzi che aveva letto. E quando gli chiedevo di
raccontarmi di nuovo una storia che mi era piaciuta, la seconda versione non
era mai uguale alla prima e il finale mi sorprendeva sempre. Le mie preferite,
però, erano le avventure del Barone di Münchhausen, e mentre lui me le
raccontava, ripescando i suoi ricordi d’infanzia e riempiendo i vuoti con pezzi
di film d’avventure, io sognavo di volare a cavallo di una palla di cannone o
di oscillare appeso alla falce della luna con una corda. E ogni volta gli
chiedevo:
“Ma è possibile? Si può
fare veramente?â€.
Il cielo e il volo mi
ossessionavano. E così un giorno lui aveva inventato per me la favola di una
mongolfiera che volava fino alla luna e vi atterrava e che poi, una volta
raccolto il suo carico, scendeva giù fino al mare, dove si appoggiava con la
sua chiglia di barca.
“Ma questo è possibile?â€
E lui mi rispondeva che
proprio fino alla luna non ci saremmo arrivati, ma che sulla mongolfiera ci
saremmo potuti volare davvero e che prima o poi mi ci avrebbe fatto salire. Che
saremmo andati insieme. E che avremmo visto la terra, le case, i prati, gli
alberi, le persone diventare piccoli piccoli, e che ci saremmo lasciati
spingere dal vento.
“Ma lo faremo di
notte?â€, avevo chiesto. “Così possiamo vedere le stelle più da vicino…â€.
Lui aveva sorriso.
“Meglio di giorno…â€
“No, no… di notte.
Promettimi che ci andremo di notteâ€.
Ma non ci andammo mai.
Tutto si era spezzato
una di quelle sere.
Lei non c’era: avevamo
cenato da soli.
Non era la prima volta
che accadeva. Da un po’ di tempo lui era triste. E lei era triste. E spesso
usciva.
Quando le chiedevo dove
andasse, lei mi guardava spaesata, stringeva tra le dita il medaglione, nel
movimento faceva tintinnare due bracciali identici che portava al polso
sinistro, poi mi rispondeva, sfuggendo il mio sguardo:
“Esco con un’amica che è
un po’ in crisi…â€
oppure
“Vado a trovare un’amica
che non vedo da quando ero ragazzaâ€.
Tra loro c’era solo un
gelido scambio di sguardi.
Ma io ero piccolo, e per
me lui e lei erano ancora quelli che si baciavano per strada mentre io mangiavo
le frittelle nel sole domenicale.
Quella sera lui era
teso. Aveva cominciato a inventare una storia e poi, distratto, aveva preso in
mano un libro che stava sul mio comodino e meccanicamente aveva cominciato a
leggere.
Avrei voluto dirgli che
era un libro vecchio, che lo conoscevo a memoria, e che lui non sapeva fare
bene le voci dei personaggi come sapeva fare lei, ma non osavo. Aveva la barba
che spuntava sotto la pelle troppo pallida e un solco tra le sopracciglia.
Poi era arrivata l’auto.
La finestra era aperta
nella sera primaverile e il rumore del motore si era udito nettamente.
Lui aveva artigliato il
libro con le dita, interrompendo la lettura.
Era rimasto per qualche
secondo così, immobile. Poi si era alzato ed era andato alla finestra.
Il libro era scivolato
giù dalle sue ginocchia e si era abbattuto sul pavimento con le pagine aperte,
come un gabbiano ferito. Ricordo ancora ogni istante di quel breve volo.
Avrei voluto affacciarmi
anch’io, alla finestra, stringermi a lui e rassicurarlo, dirgli che andava
tutto bene, ma qualcosa mi diceva che era meglio non farlo.
Vedevo il suo profilo
che si stagliava sulla notte illuminato appena dall’abat-jour. Vedevo la
mascella serrata.
C’era stata
quell’immobilità surreale per qualche minuto, tanti minuti.
Poi una portiera si era
aperta e io avevo sentito nella notte la sua risata. Era la sua ma non era la
sua. Strideva un po’, come il verso di un uccello.
E poi una voce di uomo
che non conoscevo.
Mio padre era rimasto
immobile, ma qualcosa nella sua faccia era crollato.
Poi di scatto si era
allontanato dalla finestra ed era uscito dalla stanza, senza più voltarsi verso
di me. Per la prima volta era uscito dalla mia camera dopo la fiaba senza
baciarmi né augurarmi la buonanotte.
Non l’avrebbe più fatto.
Non avrebbe più
raccontato storie o letto favole accanto al mio letto. Né mai più avremmo
guardato le stelle insieme.
La sera prima era stata
l’ultima volta in cui quel rito si era compiuto nella sua completezza. E io, la
sera prima, non l’avevo capito.
Poi avevo sentito la
chiave nella porta. E le loro voci.
Ma le avevo sentite per
poco tempo, perché subito avevo infilato la testa sotto il cuscino e, siccome
non bastava, anche le dita dentro le orecchie.
Le voci erano alte e poi
di colpo basse. E ancora alte, terribili. E di nuovo silenzio.
E ogni volta che calava
il silenzio io immaginavo che si stessero abbracciando e che subito dopo lei
sarebbe venuta dentro piano, nella mia stanza, in punta di piedi per non
svegliarmi. Mi avrebbe tirato la coperta sotto il mento, anche se era primavera
e faceva caldo. Mi avrebbe accarezzato la fronte, mi avrebbe baciato una tempia
mentre io avrei fatto finta di dormire, come facevo sempre, e poi andandosene,
subito prima di chiudere la porta, si sarebbe chinata sul letto ad accarezzarmi
un piede, come se non riuscisse ad accettare l’idea di staccarsi da me.
Invece non era entrata.
Quella notte non era mai
entrata.
E non era entrata mai
più.
Non l’avrei mai più
vista.
Ho abbandonato la mia
imbarcazione su una spiaggia poco frequentata e ora mi sposto nell’acqua. Anche
se so che non ha senso cercare di confondere le mie tracce per i cani, perché
tanto nessun altro avrebbe potuto fare quello che io ho fatto. E se decideranno
di cercarmi, mi troveranno comunque.
Guardo il cielo appena
schiarito dall’alba e le nuvole mi sembrano ancora tracce di quel fumo che si è
scatenato dopo. Tracce del mio gesto. Anche se a tutti questi chilometri di
distanza e dopo tutto questo tempo so che non è possibile.
Mi giro verso il punto
in cui so che è la casa, la piccola casa con la rete appesa e le stoviglie blu
e le tende chiare che aveva cucito lei e mi domando perché l’ho fatto. Se per
la rabbia e la disperazione di questo tradimento, per questa donna che mi ha
negato il suo grembo che credevo mio, voltandomi le spalle, o se invece tutto
questo è accaduto per quell’altra donna, per quegli occhi fondi e blu che di
colpo non si sono più posati su di me, per quelle carezze che mi sono state
negate.
Sovrappongo i due visi e
mi sembra di cogliere per la prima volta tutte le somiglianze: l’ovale preciso,
il corrugarsi improvviso delle sopracciglia, una smorfia della bocca. Anche il
movimento lento delle mani per certi versi appariva quasi lo stesso. Forse
persino il modo di camminare.
E certamente, lui,
questa somiglianza l’aveva colta subito. Chissà che cosa aveva provato quando
l’aveva vista entrare per la prima volta in quella stanza: i capelli ancora
bagnati di mare raccolti sommariamente, il viso arrossato dal sole, il sorriso
pieno e quell’abito leggero che le si appiccicava addosso. Era tornare indietro
nel tempo. Era ritrovarla intatta.
La seconda possibilità .
Come avevo potuto non
capire?
Lui vedeva venire verso
di sé la stessa donna che io avevo visto per l’ultima volta allontanarsi tra
gli alberi.
Quell’ultima volta che
non riuscivo più a dimenticare.
La mattina di quel
giorno terribile di primavera lei mi aveva lasciato davanti alla scuola. Aveva
fretta ed era fuggita via subito. Aveva attraversato la strada che separava
l’edificio da un giardino e poi, arrivata sull’altro marciapiede, si era
voltata un’ultima volta a guardarmi e a salutarmi con la mano. Dietro di lei
gli alberi erano scossi dalla brezza e nell’aria c’era un profumo così
promettente e così denso che da quel momento in poi, ogni volta che la
primavera esplode, io rivedo quella sagoma chiara ritagliata contro gli alberi,
l’onda dei suoi capelli che si muove mentre lei volta la testa.
Gli edifici, intorno,
erano inondati dal sole del mattino.
Era un quadro.
E divenne quel quadro.
Quando l’attesa era
diventata inutile e il volto di mio padre si era fatto sempre più duro e
impenetrabile, quel ricordo si era trasformato nella premonizione dell’addio. E
quegli alberi di castagno, nella mia mente, erano ora i cipressi sussurranti
dell’isola di Böcklin, le case illuminate erano le quinte di pietra.
Ogni giorno gli chiedevo
dove fosse, e ogni giorno lui mi rispondeva:
“E’ partita…â€
“Quando torna?â€
“Non lo so ancora…
prestoâ€
“Ma presto quando? Dov’è
andata?â€
Le mie domande lo
innervosivano. E allora io tacevo per non acuire la sua sofferenza.
Dopo qualche settimana
mi venne la febbre, una febbre altissima che ricordo come un lungo galleggiare
in uno stato allucinatorio. Per qualche giorno non vidi più niente: ero
diventato cieco. Vennero medici, professori, personaggi di cui udivo le voci e
di cui avvertivo il tocco delle mani, ma di cui non riuscivo cogliere i volti.
Dicevano che stavo bene. Giuravano che dal punto di vista clinico tutto fosse
normale.
“Il trauma…â€, disse
qualcuno.
Poi, una mattina, ci
vedevo di nuovo.
Avevo aperto gli occhi e
mio padre era lì, accanto a me: pallidissimo, la barba lunga, smagrito, con i
vestiti che gli ballavano addosso.
E lei non c’era.
Nemmeno questo l’aveva
fatta tornare.
Improvvisamente provo
una pena immensa nel ricordarlo così, stremato, seduto accanto al mio letto.
Nel ricostruire con la memoria la sua figura rigida e la sua abnegazione
nell’assistere il figlio disperato.
Mio padre…
Guardo di nuovo alle mie
spalle.
No. E’ troppo tardi.
Dopo quella sera non
l’avevo più visto sorridere. Per anni.
Eravamo andati avanti,
ma non eravamo più noi. Io ero diventato un uomo di colpo. Mi ero alzato da
quel letto, sfebbrato e guarito, e da quel momento lui aveva cominciato a
trattarmi come un adulto. Niente più fiabe. Niente più sogni.
Niente più stelle.
Le fotografie di lei
erano sparite quasi subito. Poi, lentamente, come in un consumarsi sotterraneo,
tutto quello che la ricordava: i suoi abiti, il suo odore nell’armadio, i suoi
oggetti nel bagno, i suoi libri.
Non appena ne avevo
avuto l’età , me ne ero andato. Avevo preso il brevetto di volo.
Ero volato via da lì.
Il sole è sorto, oramai.
Mi domando se qualcuno
sia già andato in quella casa.
Forse lei.
E adesso sta piangendo.
Il gesto non passa
nemmeno attraverso il pensiero e già sto cominciando a tornare sui miei passi.
Quanto tempo ci vorrà ? Il mare è calmo, ora. La barca so dov’è.
La traversata mi sembra
lunghissima. Il sole mi cuoce la pelle mentre so che la mia corsa tardiva verso
di lui è inutile e mostruosa.
Vedrò il frutto del mio
misfatto e frugherò tra le macerie bruciate. Piangerò inutilmente sul suo corpo
e sul dolore inferto a lei che non c’entra niente con la mia condanna, che ho
scelto solo perché me la ricordava, che forse non ho mai nemmeno amato davvero
perché non era lei, che volevo, ma il mio passato.
L’odore di fumo mi guida
verso la casa.
Immaginavo una folla,
immaginavo qualcuno che avesse già cominciato a braccarmi. Invece lo spettacolo
che si apre davanti ai miei occhi è forse ancora più tragico: un piccolo rudere
semibruciato sotto un sole splendente, un cielo di una bellezza così assoluta
da fare male.
La porta è spalancata.
Dentro silenzio e odore
di fumo.
Lui non c’è.
Apro le porte delle
piccole stanze di questa casa di pescatori che aveva visto la loro felicità di
giovani sposi e, dopo, la mia. Apro le finestre e finalmente lo vedo. E’ seduto
sotto un albero, nel piccolo spoglio giardino sul retro.
Ha gli occhi chiusi ma
respira.
Mi siedo sull’erba secca
accanto a lui, gli prendo la mano.
Apre gli occhi.
“Perché sei tornato?â€,
chiede.
“Perché voglio sapere
dov’è leiâ€.
Non c’è bisogno che io
specifichi di chi sto parlando. C’è sempre stata solo una lei, per noi. L’altra
era un pretesto per ricordarla.
“Tu hai sempre pensato
che io l’abbia uccisaâ€.
“Non avresti potuto
avere il suo portaritratti, se non l’avessi fattoâ€.
Si alza faticosamente a
sedere. Trattengo il gesto di aiutarlo.
“Dov’è, adesso?â€,
chiede. “Non lo trovo piùâ€.
Lo sfilo piano dal
collo.
Lui lo prende. Lo apre
con un gesto inaspettatamente delicato, per quelle mani grosse.
“Com’eri piccolo…â€,
mormora tra sé.
“Perché l’hai fatto?â€,
chiedo.
Mi guarda disperato.
“Non l’ho fattoâ€.
Chiude gli occhi per un
tempo che sembra infinito.
Poi li apre e ricomincia
a parlare.
“Non l’ho fatto. Ma sono
un mostroâ€. Prende fiato a fatica. “Quella sera lei se n’è andata. Ha preso una
piccola borsa, due vestiti e se n’è andata. Ha detto solo che non poteva più
restare. Le ho chiesto: ‘E lui?’… allora ha cominciato a piangere, a dire che
tu saresti stato meglio con me, che lei aveva tradito la tua fiducia. Si è
sfilata il medaglione, diceva che non avrebbe sopportato di vederlo senza
morire di dolore. Le ho chiesto perché non restasse, allora, che cosa ci fosse
in quella persona che glielo impediva… Ma mi guardava come se non mi vedesse
più. Poi ha preso una busta, ci ha infilato il medaglione. E una lettera per
te. Una lettera per te che non ho mai voluto darti perché avevo bisogno che tu
la odiassi. Che tu mi aiutassi ad odiarla…â€.
Sento freddo in tutto il
corpo.
“Dov’è?â€, doman
Cuore.
Sostantivo
maschile. Organo muscolare cavo che costituisce il centro motore dell’apparato
circolatorio, situato nell’uomo tra i due polmoni, sopra al diaframma, davanti
alla colonna
vertebrale, dietro lo sterno. L’azione del cuore per
la circolazione del sangue si svolge attraverso
tre fasi: presistole, sistole e perisistole, in cui si ha il riposo completo di
tutto l’organo.
Non esiste simbolo meno citato del cuore. E’ l’incrocio di tutto:
pensiamoci. L’inizio e la fine, il segnale primario del nostro essere vivi. O
morti. Il centro dell’amore e dell’odio, della felicità e della disperazione.
Pezzo di carne e tuttavia sede prima delle emozioni. E il cuore è anche
sinonimo di approccio emozionale, di una percezione empatica del mondo, del
lasciarsi guidare dalle passioni, dell’autenticità . Del centro.
Dalle riflessioni alte di Blaise Pascal al feuilleton moderno di Susanna
Tamaro, dall’organo dolente esposto sul petto di Frieda Khalo ai graffiti di
Keith Haring, fino a Jeff Koons che ce lo confeziona gonfio, lucido e
specchiante come un addobbo di Natale, il cuore ci parla e ci chiama ad
ascoltarlo. Qualunque sia la voce che in quel preciso momento ha deciso di usare.
Ciro Palumbo afferra un bandolo di questa intricata matassa e parte da lì
per un progetto nuovissimo che segna un punto di svolta nel suo lavoro. Seguire
la nascita di questa mostra è stato più che mai come addentrarsi nella mente
dell’artista e nei meccanismi della creazione. All’inizio è solo un pretesto,
una curiosità . Una serie di sinapsi che scattano e che spingono alla ricerca.
Magari partendo dai tatuaggi. Il cuore ricorre, nei tatuaggi, da sempre: è la
donna amata, a volte lontana, la passione; ma è anche la donna-madre e dunque
l’amore puro e inesauribile. E’ il cuore stilizzato o quello pulsante
circondato di spine, è quello alato e trafitto. E poi il tatuaggio è inciso
sulla pelle, quasi una manifestazione esteriore di un dentro troppo potente per
rimanere celato, e anche questo è interessante: quanta distanza corre tra un
cuore tatuato sulla pelle e il sacro cuore che Cristo espone ai fedeli (come un
organo pulsante, sì, ma fiammeggiante e radioso)? Ecco che le libere
associazioni partono verso altre strade. E la seconda strada che l’artista
imbocca è quella degli ex voto. Cuori appesi e raggianti, qualche volta
trafitti, umili o preziosi.
Lo studio dell’artista si trasforma così in una catalogazione spasmodica di
reperti, pagine strappate ai libri, schizzi improvvisati sull’onda di
un’emozione che lui non può permettersi di perdere. Dai cuori appesi uno
accanto all’altro a quelle pareti – gremite fino ad assomigliare a quelle
di un santuario – sgorgano fiori e spuntano chiodi, fuoriescono ali e
cieli stellati. E infine ecco che tutto trova un ordine e una perfetta
collocazione sulle spesse tavole di legno che l’artista ha voluto per questo
progetto, evidenziando anche nella scelta dei materiali e delle dimensioni
ridotte il desiderio di richiamare un mondo dalle simbologie semplici e
immediate, maneggevoli, e tuttavia dense di stratificazioni semantiche, invito
a molteplici letture, come del resto è da sempre il lavoro di Palumbo.
Prendiamo questo cuore-isola, per esempio, nel quale affonda le radici un
albero frondoso; dietro, una luna gigante che galleggia in un cielo stellato
suggerisce visioni oniriche, ma subito il volo si arresta, fermato dalle quinte
di pietra che racchiudono questa immagine collocandola in un punto preciso,
congelandola, e l’occhio, dunque, si trova costretto a percorrere di nuovo quel
cuore con uno sguardo inedito per rintracciarvi carne e sangue, arterie e
ventricoli. La visione si fa di colpo più pesante, ci richiama a noi e al
nostro essere materia bruta. Un attimo fa erano suggestioni da Il piccolo principe, ora ci siamo
ricordati ciò di cui siamo fatti e abbiamo quasi la tentazione di appoggiarci
la mano sul petto per controllare che vada tutto bene. Il racconto dell’artista
procede così, per emozioni, con i simboli sacri del pesce e delle fiamme e con
il cuore capovolto: solo, nudo e abbandonato. Con il cuore che parte in volo
solcando un cielo rosso sangue a bordo di una nave fenicia e quello che sta
racchiuso come un tesoro nascosto tra quinte di pietra su un’isola che è un
omaggio a Böcklin ma che è anche, e soprattutto, un indizio lasciato a chi
segue da sempre il lavoro di Palumbo e lo conosce nel suo essere un’intricata
caccia al tesoro di rimandi e citazioni, di simbologie e sollecitazioni
mentali. C’è tutto il vocabolario dell’artista in queste tavolette spesse,
pesanti, dalla importante presenza scenica. Ci sono i temi a lui cari del sacro
e del viaggio, del mito e del teatro, ma prima di tutto c’è quella pittura
densa, intensa, fatta di una materia vivida che sfida il limite delle due
dimensioni e si fa ipnotica e avvolgente, dove le stratificazioni del colore
vanno di pari passo con quelle del pensiero e del senso. Un tipo di pittura che
affonda le sue radici nella storia dell’arte a partire dal Rinascimento e che
ritorna ciclicamente a emergere come un filone inesaurito. Oggi più che mai.
E poi il progetto si amplia. Il respiro si fa più profondo ed ecco il Ciro
Palumbo che meglio conosciamo: quello dei guerrieri e dei viaggiatori, degli
dei e del mito. In tele grandi, ariose, le figure tipiche dell’artista
dialogano con il cuore o lottano contro le sue tentazioni. Sono personaggi in
bilico tra la freddezza marmorea della statuaria classica e la carnalità viva e
calda del corpo. Le ispirazioni vanno dalla solarità di Bernini alla sensualitÃ
della Cappella Sansevero, con i suoi panneggi liquidi a disegnare i corpi,
dalle veneri moderne alla statuaria romana. E poi oltre, molto oltre, perché
quegli scorci maschili rimandano al cinema, alla pubblicità , alle riviste
glamour; fanno l’occhiolino a Robert Mapplethorpe e a Richard Avedon. C’è il
ragazzo esile come un efebo che, accecato dalla passione, segue il cuore ad
occhi bendati e poi c’è la donna sdraiata, nuda, che con la mano artigliata al
lenzuolo scomposto respinge il cuore. C’è il guerriero, riverso come in una
deposizione, dalle cui viscere esce un cuore sanguinante e poi c’è Persefone
rapita da una violenza senza cuore. C’è il cuore che guida il cammino del
viaggiatore e quello che sorveglia l’addio tra Ettore e Andromaca.
Ci troviamo qui davanti a quella che forse si potrebbe definire la più
sensuale tra le serie di Ciro Palumbo. Non viene mai meno l’attenzione
all’ambientazione, è vero: ricorrono anche qui i dettagli delle architetture
classiche e gli scorci di ambienti metafisici dalle prospettive impossibili e
pericolanti; non mancano le rocce e i cieli di ispirazione sturm und drang, ma è come se il corpo avesse una rilevanza nuova,
un’importanza maggiore. Non solo per le inquadrature quasi sempre più ravvicinate,
ma proprio perché l’anima qui è privilegiata rispetto alle forme, alla
freddezza della perfezione anatomica. Le emozioni salgono in superficie, il
gesto si fa più ampio, l’espressione del viso comunica una battaglia interiore
che quelle proporzioni classiche, anziché contraddire, sembrano enfatizzare per
contrasto. Un contrasto che si esalta nel cortocircuito costante, disseminato
tela per tela, tra simboli mistici e sensualità , tra turbamenti dello spirito e
passioni del corpo.
E
poi c’è la scultura. La vera novità di questa mostra e il punto d’arrivo di un
percorso molto preciso. Un’attività totalmente inedita per l’artista nella
quale tuttavia dimostra di sapersi destreggiare già molto bene. Dalle grandi
tele nelle quali il cuore appare sì, protagonista, ma fisicamente limitato a un
suo proprio spazio nel lavoro, alle tavolette, dove il cuore è elemento
totalizzante, si arriva qui al terzo passo: il cuore è uscito dall’opera, è ora
accanto a noi, nello spazio, per farsi guardare e toccare. Per farsi ammirare
da ogni angolazione. E’ un cuore verissimo nelle forme e magico e surreale al
tempo stesso. Un cuore pulsante con ventricoli, vene, arterie, ma sul quale,
anche, si apre un grande occhio meditabondo. Uno sguardo severo e attento
puntato su di noi. E’ un cuore vivo di cui sembra di poter avvertire il
battito; ma poi di colpo ci si accorge che quello è un battito d’ali, e
proviene dalle due appendici piumate che spuntano dal suo dorso. La terracotta
si fa qui calda di sangue, si declina in cromatismi potenti e delicati. Cuore
che guida e cuore che batte, spirito e carne.
Che
cos’è il mito, oggi? Quali significati reali e profondi cela, in questo inizio
di millennio, la breve parola che abbiamo ascoltato fin da piccoli e che poi,
da un certo momento della nostra vita, ci siamo ritrovati giocoforza ad
associare a concetti fugaci, passeggeri, consumistici, contagiati anche noi
dall’aggettivazione iperbolica che ci accompagna ogni giorno? (Se oggi
chiediamo a un adolescente che cosa definirebbe “miticoâ€, probabilmente
risponderebbe citando l’ultimo gioco dell’Xbox o, se siamo proprio fortunati,
l’ultimo capitolo della serie Hunger games...).
C’è
un modo, dunque, per riappropriarci del mito? Se chiudiamo gli occhi e facciamo
lo sforzo di astrarci ci accorgiamo che il mito è qui, a un passo da noi, vicinissimo
ancorché irraggiungibile. Ora come allora è l’ “oltreâ€, il senso, l’origine e
il fine di cui non possiamo fare a meno. Come umanità , come uomini e come
donne, abbiamo spasmodicamente bisogno di miti in cui credere. E se qualcuno ce
li porta via, o peggio li depriva del loro senso più profondo, ecco che
sentiamo subito l’esigenza di ricostruirceli, di ritrovarli, al costo di farlo
altrove. O, se siamo molto fortunati, di farceli restituire.
E’
questo che fa, sostanzialmente, Ciro Palumbo con la sua pittura pulita,
elegantissima, calibrata in un gioco sofisticato di equilibri cromatici e
spaziali. Una pittura densa, non solo dal punto di vista dei significati, ma
anche, e forse prima di tutto, da quello pittorico. Perché Palumbo è un pittore
vero, di quelli che hanno fatto tesoro della lezione del passato, l’hanno
rielaborata, acquisita e poi se la sono caricata sulle spalle per farne dono a
noi, con una voce originalissima e totalmente nuova. Proprio come il suo Guerriero,
che si avvia alla battaglia non con armi e scudo, ma con uno zaino di
conoscenza e di fantasia e con un’isola, sulle spalle, che è microcosmo intatto
di speranza e di pace. Palumbo sceglie il mito, perché ciò che è assoluto da
sempre suscita in lui una fascinazione irresistibile: il gioco, perfetta
finalità senza scopo così come l’arte e la bellezza; il teatro, eterna metafora
di vita fatta di personaggi e maschere; il viaggio, viatico di conoscenza e di
esperienza; e poi il sacro, il calvario, la religione, Dio. Pur essendo un artista
perfettamente calato nel proprio momento storico, Palumbo non ne è un freddo
cronista, ma è piuttosto un artista sciamano. Raccontare le guerre che oggi
devastano il pianeta, così spaventosamente vicine eppure così lontane dalla
nostra mente, il terrorismo, gli sbarchi disperati non è materia sua. Non
perché gli argomenti non lo tocchino: tutt’altro, ma perché gli sembrerebbe di
non aggiungere nulla. Ecco allora che lui va oltre: sale a bordo di una di
quelle sue barche magiche, quelle che portano un occhio umano dipinto a prua e
che volano sullo sfondo di cieli tempestosi, densi di nuvole aggrovigliate,
oppure che passano a fatica tra faraglioni di pietra ruvida e scabra come la
pelle di un Cristo flagellato (così le ha definite il regista e scrittore polacco
Lech Majewski), e con quella viaggia nel tempo fino a raggiungere un passato
quasi intatto, quel momento perfetto in cui la felicità pareva ancora alla
portata dell’uomo. E da lì ci getta un ponte. E’ un ponte difficile, da
attraversare. Attraversarlo è un po’ come passare per quelle prove impossibili
che testavano il coraggio e la tenacia degli eroi delle antiche favole. Perché,
in fondo, Palumbo è un affabulatore, un cantastorie, qualche volta un
giocoliere, qualche altra volta uno chef sopraffino che si diverte a mescolare
gli ingredienti più assurdi, più impensabili, riuscendo a far scaturire dalla
loro unione profumi e sapori sublimi. Il suoi dipinti potenti, ipnotici, capaci
di intrappolare lo sguardo in una spirale infinita di stimoli percettivi, di
catturarlo e sedurlo fino a farlo capitolare, sono come scatole cinesi, come
sfide sottili. Il paesaggio è spazio e personaggio, anima capace di incarnare
pensieri ed emozioni. Il cielo è come lo sguardo di Dio, limpido di gioia o
fosco di collera. Il mare si alza in tempeste misteriose, in onde dalle creste
affilate come coltelli, che sembrano poter tagliare in due la piccola
imbarcazione che le solca impavida. La costa si fa di volta in volta tenero
abbraccio, utero accogliente, rifugio del naufrago oppure quinta oscura dai
mille nascondigli bui e fitti di minacce. La roccia è al tempo stesso natura
selvaggia e lascito dell’uomo, un uomo forse passato di lì più di mille anni
prima: resta del suo passaggio una porta, una finestra incerta, una presenza
remota fantasmatica e inquieta. E poi c’è lui. L’eroe. Forse un dio, forse un
semidio. E la sua presenza incombente fa vibrare l’aria rarefatta del dipinto.
Può essere Prometeo accasciato su una roccia – la fronte virile corrugata
in un’espressione di sconforto – affranto per l’uso sconsiderato che
l’uomo ha fatto della conoscenza. Può essere Vulcano, possente e fiero, seduto
come un re compiaciuto sul suo trono di pietra. Oppure è Polifemo, battuto, sì,
ma non sconfitto, con l’occhio che, ancora, caparbio si fissa in quello dello
spettatore attraversando la fascia che dovrebbe oscurarlo. O Ulisse, non più
persona, ma portatore di pensieri, di sogni, di memorie e di esperienze. Figure
possenti, scolpite in un marmo dalle tinte gelide, gli occhi ciechi della
pietra a dichiarare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che di marmo si
tratta, di materia dura, eterna e indissolubile. Ma non è così. Basta uno
sguardo per capire che non è così. Ed è qui, in questa squisita ambiguità , che
si gioca la magia di Palumbo. Perché al di là di ogni ragionevole dubbio è
carne morbida, cedevole, sottilmente sensuale quella di Proserpina, stretta
nell’abbraccio del suo rapitore. Così come è carne quella delle tre Grazie di Piccole estasi,
dipinto di un erotismo languido, estenuante, a dispetto dei perfetti ovali dei
visi e delle capigliature rubate alla statuaria classica. E con un pizzico di
ironia è carne quella dell’Hermes che si gira di tre quarti, quasi sorpreso,
mentre lo spettatore ne scopre le grazie liberate dal morbido panneggio. E
carne, e anche emozione, addio, tristezza rispecchiata da un cielo
crepuscolare, è quella di Amore e Psiche.
Questa
trionfale epopea che racconta il mito nella Magna Grecia, questo romanzo
intenso, pieno di pathos, che si snoda dalla Porta di Apollo, ai Giardini
Naxos, fino al Castello di Carlo V è in realtà , per Ciro Palumbo, il pretesto
per dirci che il mito è qui, anche in questo folle e frenetico presente. E per
dimostrarcelo l’artista gioca di sponda, inventa trucchi da prestigiatore, mette
in scacco le nostre certezze percettive costruendo per noi dei ed eroi
sostanziati di marmo e di carne e raccontandoceli, poi, come un regista
consumato, in primi piani ravvicinatissimi, in zoom inaspettati, inventando
tagli fotografici azzardati, facendo l’occhiolino alla pubblicità e alle
riviste patinate, disseminando i quadri di indizi che vanno letti uno dopo
l’altro e poi quadro dopo quadro, quasi dovessimo ricostruire un’intricatissima
scena del crimine. Perché la testa di Hypnos, fedelissima in verità a quella
del frammento recuperato della statua, è nel dipinto di Palumbo quasi una testa
di bambola senza occhi, retaggio di un immaginario cinematografico oramai
diventato storia, ma galleggia, anche, in un buio infinito, pastoso, troppo
stellato per essere cielo. E mentre ci domandiamo se non sia forse un sipario,
se non siamo stati ingannati ancora una volta dall’incantesimo, lo sguardo si
lascia catturare dall’altra ala, quella che la testa non ha conservato, e la
scopriamo fluttuante e verissima, viva, palpitante di piume così credibili che
vi si potrebbe affondare la mano. Sogno e realtà si rincorrono sulla tela tra
Freud e la pittura automatica dei surrealisti. Ma solo poco più in là ecco
spalancarsi una stanza dalle tinte infuocate e dalle prospettive mobili:
interno ed esterno si mescolano, si ibridano, in una visione incantevole e
impossibile. L’acqua dilaga dove dovrebbe esserci pietra, l’orizzonte si
allarga dove dovrebbe chiudersi una parete. E se la suggestione, qui, è
metafisica, basta alzare solo un istante lo sguardo per accorgersi che in cielo
si stanno addensando nuvole di materia magmatica e lì i pigmenti sembrano
uscire dal quadro, dilagare al nostro spazio, travolgerci in una bufera
informale.
Quadro
dopo quadro la storia comincia ad avere dei contorni sempre più definiti, e
dove la mente non arriva a comprendere tutto, i significati più reconditi, più
profondi, l’artista ci invita ad abbandonarci, a lasciarci andare al piacere
puro del guardare. A permettere che sia l’emozione, e non la ragione, a
cogliere la morbidezza pulita della pennellata e a farla propria come puro
godimento fisico. Perché quella di Palumbo, al di là della lezione preziosa che
ci dà , è prima di tutto una pittura che ci accarezza e che si lascia accarezzare,
che ci avvolge e ci coinvolge, che ci inonda di cieli infuocati al tramonto e
di mari in tempesta ai quali, in fondo, viene voglia di affidarsi senza paura,
convinti che di certo, un po’ più in là , un approdo ci sarà , e sarà un approdo
felice. E se in quella dea velata dal panneggio terribilmente sensuale vogliamo
vedere una Venere o una Madonna non importa, quello che importa è che lei ci
prenda per mano e che ci aiuti ad attraversare il ponte magico che l’artista ci
ha lanciato, che ci faccia fare un passo, almeno, alla ricerca delle risposte
che stiamo cercando da sempre. E se quella Nike svettante, racchiusa da quinte
di cipressi e di pietra e appoggiata su un piedistallo di sassi, ci ha
catturati e non riusciamo a staccarvi lo sguardo, non domandiamoci il perché.
Lasciamo che quel cielo vorticante in cui si apre un occhio di luce, sopra di
lei, ci illumini, ci contagi, ci faccia suoi senza un perché. Lasciamo che
quelle insenature di pietra, quelle spirali, quelle clessidre, quelle onde
dall’andamento vagamente concentrico, parlino direttamente alla nostra pelle e
alla nostra anima, e la rassicurino sul fatto che tutto torna, fatalmente, che
il mondo si ripete inesorabilmente, che il passato è qui, dietro l’angolo, come
il mito. Basta cercarlo.
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ETERNAL
GAZES FOR A CONTEMPORARY IDEA OF THE MYTH
Today, what is a ‘myth’?
What real and deep meaning does it conceal at the beginning of this millennium?
This tiny word that we have heard since we were children and that then, at a
certain point in our lives, we find ourselves inevitably associating with
fleeting, momentary, consumerist concepts infected with the hyperbolic
adjectives that accompany us every day. If we were to ask an adolescent to define what a myth is in
today’s world, he or she would probably answer with reference to the latest
game for the X Box or if we’re lucky, the latest chapter of Hunger Games.
So is there a way of
approaching the myth again and attempting to regain it? If we close our eyes
and try to escape from reality for a moment, we realize that the myth is here
and now, it’s close to us, incredibly close, even if it is hard to reach. Now
as then, it is that which is always “beyondâ€, yet it is also the sense, origins
and the end that we can’t do without. As humanity, as men and women, we have
the spasmodic need to have myths in which we can still believe. If they are
taken from us or worse still, deprived of their deepest meanings, we
immediately feel the need to rebuild them, to rediscover them, at the cost of
creating them elsewhere, or if we are very lucky, to have them given back to
us.
It is the latter that is
essentially the work of Ciro Palumbo, whose clear, elegant paintings are
regulated in sophisticated chromatic and spatial equilibrium. It is dense painting,
not only from a point of view of its meanings but also and maybe above all
pictorial. It is because Palumbo is a real painter, one who has created a
treasure from the lessons of the past; he has acquired and re-elaborated them,
carried them forward as a gift to us, with an original and totally new voice.
Just as we can see in his Guerriero,
who approaches battle not with weapons and a shield but with experience, rich
with awareness and fantasy and with an island at his shoulder that is an intact
microcosm of hope and peace. Palumbo chooses the myth because that which is
absolute has always held an irresistible fascination for him: the game, the
perfect ending without an aim, just like art and beauty; the theatre becomes an
eternal metaphor of life for him, made up of characters and masks, the voyage,
supplier of knowledge and experience; and then the sacred, the Calvary,
religion, God. Even though he is an artist who is perfectly at ease in his own
historical period, Palumbo is not a cold, detached teller of chronicles but
rather a shaman artist. Narrating the wars that devastate our planet today, so
horribly close and yet so far from our minds, terrorism or desperate landings,
this is not his territory. It is not because these issues fail to touch him,
far from it, but because they continue to fail to reach a conclusion. This is
the reason why he attempts to go beyond these events. Step onto one of his
magical boats, those that bring a human painted eye to its prow and that fly
against a background of tempestuous skies dense with tangled clouds or that
attempt to pass between sea stacks of rough rocks, rough like the skin of a
whipped Christ, as has been defined by the Polish writer and director Lech Majewski.
There is a journey through time until we reach that almost intact past, that
perfect moment in which happiness still seemed attainable. From there, a bridge
is built but one that is difficult to cross. Crossing it is a somewhat like
experiencing those impossible challenges that tested the courage and tenacity
of the heroes of the ancient tales. This is because in essence, Palumbo is a
storyteller but then sometimes he’s a juggler or a sophisticated chef who
enjoys mixing seemingly absurd ingredients together, managing to extract a
union of fragrances and sublime flavors from them. His works are strong,
hypnotic and able to trap our gaze in an infinite spiral of perceptive
stimulus, capturing and seducing until we have to give in as in a game of Chinese
boxes, succumbing to their subtle challenges. His landscape is space and
character with a spirit which is capable of embodying thoughts and emotions.
The sky is like God’s own gaze, limpid with joy or clouded with anger. The sea
rises up in mysterious storms, on the crest of waves as sharp as knives, that
seem able to cut the little boats in two, the approaching coast seems like a
tender embrace, a safe womb, a refuge for the shipwrecked or a promise of a
thousand dark hiding places, thick with menace. The rocks are at the same time
savage nature, left by man, man who has probably passed by them thousands of
years before. What remains of his landscape is a door, an uncertain window
which opens onto a remote, ghostly, unsettling presence. Then there he is: the
Hero. Maybe a God, maybe a demigod and his imminent presence makes the rarefied
air of the painting vibrate. It could be Prometheus fallen against a rock, his
virile forehead creased in an expression of discomfort, exhausted by the
thoughtless use that man has made of knowledge. It could be Vulcan, powerful
and proud, sat like a pleased King on his stone throne. Or maybe Polyphemus,
down, yes but not beaten with the eye that is still hell bent on meeting the
eye of the observer through the patch that should obscure it. Or Ulysses, no
longer a person, but a carrier of thoughts of dreams, memories and experience.
They are powerful
figures sculptured in ice tinted marble; the blind eyes of the rocks declare
beyond any reasonable doubt that this is marble, hard material, eternal,
permanent. Yet all that we need to do to understand that this is not the case
is to take a deeper look. It is in this exquisite obscurity that Palumbo’s
magic is at play. Beyond any doubt, the flesh is soft, potentially weak; Proserpina’s
is fine and sensual, caught tight in the grasp of her capturer. Such is that of
the flesh of the three Graces in Piccole
Estasi, painted with languid eroticism, drained despite the perfect ovals
of the faces and the hairstyles stolen from those of classical statues. With
some irony, the flesh of Hermes turns at three quarters, almost surprised as
the observer discovers the Graces liberated from their soft drapery. There is
flesh, emotion, farewells, sadness mirrored in a twilight sky, that of Amore
and Psyche.
This triumphant epic
that recounts the myth of the Magna Graecia, that intense story full of pathos,
that unravels from the gateway of Apollo to Giardini Naxos until the Castle of
Charles the V, is actually Palumbo’s
excuse to tell us that the myth is here, even in our mad and frenetic present
day. To demonstrate it the artist plays around the edges, inventing almost
magical tricks, so that our perceptive certainties are stopped in their tracks,
creating for us Gods and substantial heroes of marble and flesh, telling their
stories, and then, like an intense director, he takes incredible close ups,
unexpectedly zooms in, taking risky photographic shots with a nod towards
advertising and the glossies, spreading scenes of clues that can be read one
after another and picture after picture. From all this, we almost have to
reconstruct a very intricate crime scene. This is because Hypnos’ head,
faithful to the fragment of the head of the actual statue which was discovered,
becomes in Palumbo’s painting almost a doll’s head without eyes, the legacy of
a cinematic illusion by now history, but it still continues to float in
infinite darkness, too thick and too star filled to be a real sky. As we ask
ourselves if this is not perhaps a theatrical curtain, if we haven’t been taken
in again by the spell, our gaze is allowed to fall upon and remains trapped by
the other wing, that which the head has been unable to keep, and we discover
it, floating and very real, alive, palpitating with feathers and so credible
that one’s hand could almost disappear into it. Dreams and reality run parallel
on the canvas, between Freud and the painting of the Surrealists. Yet just a
bit further on, here we are, met with a room which is wide open and painted in
fiery colors and mobile perspectives, where the external and internal merge,
become a hybrid in an enchanting and impossible vision. There is water where
there should be rock; a horizon opens up where walls should be. If the
suggestion here is metaphysical, then you need only to raise your gaze for a
moment to realize that the sky is becoming thicker with clouds of magmatic
material and here, the pigments seem to seep out of the painting, overflowing
into our space, involving us in an informal upheaval.
Painting after painting,
history begins to have confines which are increasingly more defined. Where our minds fail to understand the
whole and the more hidden, deeper meanings, the artist invites us to simply
abandon ourselves to pleasure, to let ourselves go in the pure pleasure of
looking. It is to let emotion and not reason control us, so that we may accept
the clean soft brushstrokes of the artist’s hand, to experience it as pure
physical pleasure. Palumbo’s work, apart from the precious lessons that it
provides us with, is first and foremost art which caresses us and allows us to
caress it, wrapping us therein, involving us totally. It is art flooded with
skies that are fiery with sunsets and seas that are tempestuous in which, in
essence, create in us a desire to trust completely without fear, convincing us
that a little bit further on there will be a landing place and a happy one too.
In that Goddess veiled in drapery, incredibly sensual, we may see a Venus or a
Madonna, it actually doesn’t matter. What does matter is that she takes us by
the hand and leads us across that magical bridge that the artist has created,
that she enables us to take a step forward towards finding the answers to
questions that we have always been asking. The towering Nike enclosed in the
backstage of cypresses and rock and placed upon a pedestal of stone has
captured us and we are unable to look away from her and turn our gaze but there
is no reason to ask why. Let’s leave the whirling sky opened up by a shaft of
light above her illuminate us. Let’s allow the rock cove , those spirals, those
hour glasses, those waves ofÂ
vaguely concentric pace, talk directly to our skin
and to our souls and assure us
that everything fatally returns, that the world repeats itself relentlessly,
that the past is here, just around the corner, just like the myth. We just need
to look for it.unger Games.Hu
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