Moderno e antimoderno sono parsi, nel secolo scorso, gli unici termini problematici possibili della pratica d’arte: quasi che, carsicamente ma in maniera assai tenace, si fosse creata una sorta di polarità che era anche reciproca necessità agonistica, capace di garantire entrambi. Imperativo è stato l’être absolument moderne, tanto quanto il rappel à l’ordre: il nuovo come valore in sé, la tradizione come valore in sé: quasi che nulla fuor di questo potesse aver sensatamente luogo.
Eppure. Come leggere davvero De Chirico e Savinio, o Balthus e il Funi anticheggiante, se non come percorsi di lateralità, deriva e deroga sottilmente intellettuale, dalle idées reçues di forma e difforme, di reale e irreale, eccetera? Allo stesso modo, e venendo al nostro argomento, come pensare il viaggio ormai non breve di Ciro Palumbo entro una sorta di trasognato, ma già doppiato intellettualmente, impianto classico d’icone e maniere?
Palumbo assume con enfasi calcolata il nostro apparato di sedimenti di memoria (con retrogusti di nostalgia) del passato, quella emulsione dolce e a sua volta in lieve deriva in cui il greco e il romano son ridivenuti, com’era nel Settecento e nell’Ottocento, l’antico. Ovvero, egli non affronta la ratio del classico, ma la sostanza della nostra aspettativa rispetto all’antico.
Su tale schema iconografico Palumbo prende ad attuare una sorta di continua, minuziosa, insieme amorevole e non acritica operazione di contaminazione: il nostro sguardo viene avvinto da un’idea del classico, si rende disponibile e confidente, e subito s’inoltra in un gioco continuo di spostamenti, sottrazioni, squilibri, dissonanze: ovvero, trova interrogazioni, domande, dubbi, trascorrimenti fantastici, là dove proiettava certezze che si rivelano pericolanti, quando non fantasmi di coscienza.
Non solo, e non tanto, per quel giocare di Palumbo alla citazione anacronistica, al montaggio d’iconografie di umore allegorico e di attributi che fanno di una serie come quella che egli ha di recente dedicato alle professioni (in filigrana vi si avverte anche l’umore dei cicli medievali di rappresentazioni delle artes) una sorta di teatro fastoso e straniato.
Soprattutto, perché ciò che assume, in seconda e più cautelata lettura, valore centrale nell’esperienza estetica delle sue opere, è quel loro incoercibile ruolo di doublure, di rimando continuo ad altro, quasi che il senso, più che trovare dimora, continuamente ne vivesse il disagio e insieme ne schiudesse prospettive ulteriori.
Palumbo ripensa la grecità, dunque, e ciò che essa primariamente è per l’immaginario corrente, e dunque la mediatezza assoluta, il teatro delle pose e dei sensi, per scavarvi ancora, per farne scaturire nuove ulteriori schegge poetiche.
Palumbo sa bene che l’aggirarsi entro tale repertorio è possibile solo a patto di riprogettarne la tensione mitopoietica: anzi, di far divenire tale tensione stessa il valore attorno al quale operare.
In altri termini, forza la pretestuosità tematica in favore di un rimuginio e d’una sperimentazione solo stilistica, intuendo che qui, nella riformulazione possibile d’uno stile, passa il vero filo rosso della storicità possibile della pittura.
L’elemento citatorio si fa dunque, se possibile, ancora più esplicito. È, insieme, nulla più che genere, e tema d’un agire altrimenti orientato e motivato.
Ognuno dei caratteri topici dell’antico viene passato al vaglio dell’eccesso retorico, sino a trovarne il punto di dissoluzione e riattivazione espressiva. La stabilità spaziale evocata dalle colonne e quegli orizzonti boeckliniani, la clausola dello statuario e le inserzioni di straniamenti surreali, vi agiscono come matter di ragionamento visivo anziché come ingredienti. Maschere, sempre, sono. Maschere che valgono doppio d’una identità, ma anche della scultura che con pari pertinenza evocano: maschere di maschere, nel teatro infinito delle parvenze che, riverberando, produce rêverie.
Come avviene, analizzando, il meccanismo del riconoscimento, dell’evocazione e dello scacco? L’Architetto è là, orgoglioso in apparenza d’una forma e d’un piedistallo che lo rende, già, proiezione monumentale. E c’è Olimpia, ma c’è anche Savinio, l’icona e la metamorfosi intellettuale, l’identità in cerca di stabilità e la continua alterità del trascendimento.
È così anche nel ciclo più recente di opere, in cui il tema dell’homo viator, del viaggio come fondamento esistenziale, in cui non solo la tradizione letteraria antichissima e modernissima insieme dell’andare, ma anche e più quella religiosa dei pellegrinaggi giubilari, che fa del viaggio un percorso dell’anima, viene assunta nello schema intellettuale del ciclo pittorico all’antica, il cui l’artista assume concezioni altrimenti elaborate condividendole con un committente – sia esso il singolo o la civitas cui appartiene – ma le fa proprie, e vive, in ragione di quella che Cennino Cennini chiamava fantasia, la facoltà “di trovare cose non vedute, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia”.
Non di citazioni, beninteso, e men che meno di giochi cerebrali attuati a freddo da Palumbo, si tratta. Davvero la sua è coscienza complessa e interrogativa, che decide di calarsi pienamente, e con nutrimenti di fasto sensuale, nelle avventure della forma, negli spettri dell’iconografia, perché ne siano verificati i barbagli, e le sottrazioni, e gli sdoppiamenti, non come meri fantasmi della mente, ma del corpo delle immagini.
Ed è una coscienza capace di ridivenire, nel filo ininterrotto delle prove, delle seriazioni brevi o lunghe del suo operare – anche l’iterazione del motivo diviene, in lui, ragione di spostamento e deroga continua – e degli interni rimandi, energia inventiva, facoltà di creare corpi ulteriori d’immagine, tra sembiante e accelerazione fantastica.
Quanto l’identità convenzionalmente visiva della forma sia il falso bersaglio di un ben più sottile ragionamento sull’identità dell’individuo pittorico, è suggerito dal continuo scambiarsi dell’accuratezza del montaggio iconografico, che è come il distillato d’una visionarietà irrequieta, con una pittura che non si rinserra entro modi anticheggianti e compitati, ma si si nutre di nevrotici umori moderni.
La démarche problematica di Palumbo è questa, in fondamento: ciò che tu vedi è sì l’evocazione fantasmatica della forma già conosciuta, ma in un processo di formazione che, all’origine e nel proprio processo, si dà come totalmente altro, che vi immette un profondo e dolcemente velenoso germe contraddittorio.
Questo dice, tra l’altro, nella sua pittura, il sottrarsi alla politezza funebre del progetto di perfezione, il lasciare in vista il fluire della fisicità del dipingere: perché vi si assapori il lavorio drammatico della nascita della forma tra talento e sprezzatura, in un pensare l’immagine che dice antico, ma è tutto calato nel disagio della modernità.
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