L’essenza della Pittura, almeno così è stata concepita nella
sua natura più nobile ed antica, è il saper vedere oltre l’apparenza, per
raggiungere, attraverso una rappresentazione sensualmente riconoscibile,
l’essenza della realtà stessa. Rappresentare l’invisibile e, perché no, anche
l’impossibile è una prerogativa tutta e solo della pittura. Nessun linguaggio
visivo potrà mai rappresentare quello che fisicamente non esiste, quello che
non c’é o che non c’é più. Ed in questo, che è il cuore della ricerca espressiva
di Ciro Palumbo (e di pochissimi altri in una contemporaneità altrimenti
totalmente distratta dagli orrori della realtà ), si ritrova anche l’origine
epica delle rappresentazioni pittoriche; origini per noi fatalmente
riconducibili all’aleph della cultura occidentale, sottesa fra Gerusalemme e
Atene. In entrambe le tradizioni, sorprendentemente simili, la nascita
dell’arte avviene per colmare il vuoto di un’assenza, di un qualcosa, dunque,
che non c’é più, che non è più visibile, che appartiene ormai alla metafisica.
Nella sua Naturalis Historia Plinio il vecchio riferisce come in Grecia: “Il
vasaio Butade Sicionio scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti in
argilla; ciò avveniva a Corinto ed egli dovette la sua invenzione a sua figlia,
innamorata di un giovane. Poiché quest’ultimo doveva partire per l’estero, essa
tratteggiò con una linea l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di
una lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla riproducendone il
volto; fattolo seccare con il resto del suo vasellame lo mise a cuocere in
fornoâ€. Nella tradizione giudaico-cristiana la prima immagine “artistica†è
ricondotta al Sacro Velo della Veronica (da “vera-eikonâ€, la “Vera Iconaâ€), la
cui origine è narrata da vari racconti apocrifi (ma non dai vangeli sinottici,
nei quali si parla solo di un’emorroissa1 poi ricondotta a santa
Veronica), poi divenuti leggenda nel Basso Medioevo ed entrati nella
tradizione: il velo col quale la santa avrebbe deterso il volto di Cristo sulla
via del Golgota e sul quale, miracolosamente, la sua immagine sarebbe rimasta
impressa.
In entrambi gli episodi l’invenzione
dell’arte trae origine da un’assenza e come lenimento del dolore da essa
provocata attraverso una nuova “rivelazioneâ€.
Rappresentare l’invisibile è dunque rivelare la realtà per
svelarne l’essenza. Ecco perché la pittura è sempre un tradimento del visibile,
della realtà fisica, un suo occultamento che la riduce a mero pretesto per
approdare ad altrove totalmente metafisici. Nessuna rappresentazione pittorica,
nemmeno quelle assimilabili alle forme più estreme di realismo, potranno mai
coincidere con la realtà stessa. Tanto più le rappresentazioni visionarie,
teatralmente scenografiche e impossibili che scaturiscono dalla mente senza
tempo di Palumbo. Il quale con determinazione e forza ha da sempre deciso di
perseguire una pittura orgogliosamente lontana dalle urgenze, spesso vacue ed
effimere, di una certa contemporaneità estrema, ponendosi in una dimensione
senza tempo. Solo così Palumbo dà corpo ai suoi ideali e forma ai suoi sogni:
immagini impossibili e cariche di misteri altrettanto profondi, dalle quali non
possono che scaturire domande, interrogativi, dubbi, mai risposte o, tantomeno,
certezze.
I dipinti di Palumbo, antichi per tecnica ma non per anima,
sfuggono a qualunque classificazione e a qualunque riferimento mitologico
classico evidente, così come non sono realisti in senso più stretto, muovendosi
nell’affascinante ambito dell’invenzione, mai di una mimesi riferibile al
visibile. Ma nonostante questa inafferrabilità le immagini di Palumbo creano e
trasmettono emozioni serene e gioiose, come immagini di “storie senza storiaâ€
nate dall’immaginazione mai sazia di se stessa di un eterno bambino.
A proposito della pittura di Palumbo si è spesso parlato,
con evidente ma superficiale ragione, dell’influenza di Arnold Boecklin o della
diversa metafisica dei fratelli de Chirico e Savinio. Palumbo stesso si è più
di una volta riferito a quegli illustri riferimenti, forse non rendendosi conto
che la sua espressività e la sua pittura erano andate ben oltre, “digerendo†e
assimilando quelle lezioni espressive altrimenti oggi anacronistiche,
trasportandone l’essenza, ossia l’evidente mistero, in un’altra, nuova dimensione metafisica, spogliata
di quelle inquietudini e di quelle ossessioni che, degenerate, avrebbero
ammorbato l’intera “età dell’ansiaâ€.
Nella sua maturità , della quale questo ciclo ispirato da
Brueghel il Vecchio rappresenta certamente una tappa decisiva, la metafisica
evocata da Palumbo si è rapidamente affrancata dall’ansiosa inquietudine dei
lontani maestri (ai quali aggiungo il più vicino ed espressivamente
contemporaneo Massimo Rao), approdando ad una dimensione diversamente intrisa
di giocoso mistero. E’ vero che in Palumbo tutto è isola, ma si tratta sempre
di un luogo desiderabile e desiderato, al quale approdare per sfuggire
lucidamente ad una realtà altrimenti ostile. Le isole di Palumbo, anche quelle,
sempre fluttuanti su cieli oceanici o mari aerei, dove volteggia “il mulino di
Dioâ€, attengono più all’isola incantata di Armida che non a quella carontica di
Boecklin. Un luogo dell’immaginazione, del desiderio e del teatro. E della
vita.
Già il teatro. Quanta importanza ha il senso della
messinscena teatrale nella pittura di Ciro Palumbo? E nel tentare una risposta
ecco rispuntare il ricordo a Massimo Rao, altro (e compianto) creatore di
quadri in tutto più affini ad istantanee teatrali, perciò impossibili, che a
visioni più o meno reali. Tutto nelle immagini di Palumbo rimanda al teatro:
fondali, quinte, effetti luminosi, macchine sceniche figlie di un barocco
improbabile. L’ispirazione stessa scaturita da Brueghel il Vecchio è più figlia
di un teatralissimo, misterioso, silenzioso (e straordinario) film del polacco
Lech Majevski (I colori della Passione, 2011) che non dal grande e celeberrimo
dipinto conservato a Vienna, nel quale ogni metafisica passa ineludibilmente
dalla greve condizione dell’uomo.
Il grande mulino al centro del dipinto fiammingo, e che
simboleggia un Dio dominante ma pure, e di contro, la fatica di vivere, per
Palumbo si trasforma in un’â€isola dei viviâ€, un nuovo ed inaspettato luogo
dello spirito e della pittura, una nuova meta che impone un nuovo viaggio
nell’invisibile.
Lontane sono le problematiche e le afflizioni delle
tormentate Fiandre riformate, così come lontane sono le afflizioni del nostro
tempo: non è questo un ambito d’indagine centrale per Palumbo. Quello che al
pittore contemporaneo interessa è nuovamente l’indagine di un mistero, non di
una realtà né di realizzare opere dal dichiarato intento sacro (spirito questo,
invero, assai laicizzato dal Brueghel stesso, più interessato alle “coseâ€
terrene che ad indagini teologiche). L’interesse di Palumbo al mistero panico
del·
paesaggio, reso emblematico non a caso dal grande e solitario mulino, è il
desiderio insaziabile di sondare il mistero infinito della pittura. Ancora una
volta Palumbo s’immerge nelle sue visioni, in quell’ossessione metafisica che
lo porta ad intraprendere un viaggio per altri lidi ed altre isole, sfidando il
tempo e lo spazio, la fisica e ogni realtà possibile. La pittura qui riacquista
e riafferma il suo straordinario primato di rappresentazione dell’invisibile,
del trascendente, di un “qualcosa†per alcuni coincidente con Dio, per altri
con una metafisica ancora tutta da dimostrare. Ed in questo è la forza e per
molti aspetti l’unicità di questa pittura e dei dipinti di Palumbo.
Qui, al pari di tutta la pittura che possa affermarsi
autenticamente tale, si assiste ad una delle più incontrovertibili prove
dell’esistenza di un altrove, dell’esistenza di Dio. Non è possibile alcuna
rappresentazione pittorica laddove non si accetti l’esistenza di una dimensione
“altraâ€. La pittura è sempre e comunque un atto di fede, a prescindere dalla
volontà o meno del suo esecutore materiale.
Osservare i dipinti di Palumbo significa lasciarsi sedurre
dalla sua espressività pura e scevra di concettualismi concettosi. La pittura
di Palumbo, ed è qui la sua unicità ed il suo valore, non si nasconde, non si
nega allo sguardo, ma, di contro, vuole sedurre e comunicare, rapendo e
trasportando l’osservatore in una dimensione altra, magica, sospesa, reale
sebbene impossibile. Il mistero metafisico di Dio, come quello della Pittura,
non può essere spiegato da lingua umana né da logica alcuna. Entrambi
necessitano solo di un incondizionato atto di Fede perché solo credendo è
possibile la realtà . L’intera storia dell’arte è storia di idee ed i soggetti
che passano, mutano e si rinnovano. Costante rimane il mistero che ne muove le
fila e con esso le mille domande alle quali, ogni volta, l’artista aggiunge le
sue: “Non si dipingono idee, non si dipinge un ‘soggetto’. Non ci sono che
misteri. Non ci sono che domandeâ€.
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